Una finestra aperta                                                       Editoriale                                               Dicembre 2002

Ci mancava solo questa. Dopo arteterapia, ippoterapia, musico-terapia, cromo-terapia, perfino cooking-therapy, ora si fanno anche la teatro-terapia e la dramma-terapia - si badi bene, due cose distinte - la scrittura creativa e gli interventi espressivi. In realtà, dal marchese di Sade a Charenton, in pieno Illuminismo, a Biagio Miraglia, ad Aversa, alla metà dell’ottocento, giù giù fino a Basaglia a Trieste, gli alienati, prima, poi i pazienti e ora gli utenti, tutti quanti hanno fatto e fanno, ad esempio, teatro. Noi tutti scriviamo, o cerchiamo qualche altra volta forma di espressione, un retrobottega tutto nostro, assolutamente autonomo, dove conserviamo la nostra vera libertà, abbiamo il nostro più importante rifugio, godiamo della nostra solitudine. E talvolta sappiamo quanto è importante non mancare di aprire questo spazio agli altri, stabilire un contatto come valvola di sicurezza dal rischio di uno "splendido isolamento", nel quale non si nota il cambiamento, si esagera tutto, si sta in agguato, si forza continuamente la verità. Ma questo servirà a guarire? Se il paradigma vincente nelle neuro-scienze è quello biologico, se è perfino in discussione l’ultraventennale esperienza di territorio, cosa ci stanno a fare registi, attori, macchinisti, narratori, fotografi, artisti in un centro diurno? Oppure serve solo ad intrattenere, far divertire, far dimenticare tristezze, affanni e pensieri fissi? L’arte è un grazioso condimento di misure restrittive? terapia morale? ri-abilitazione - da quali colpe? O un tentativo ingenuo e velleitario di scalfire le certezze dei custodi della scienza? C’è perfino da chiedersi se proprio tutti i protagonisti capiscono quello che succede - non è il distacco dalla realtà la dimensione propria della psicosi? Puntiamo, almeno, al miglioramento della qualità di vita. È possibile reagire alla sofferenza ed all’emarginazione? Magari sì, costruendo per tanti una vita degna di essere vissuta, da cui sofferenza e cura non sono scomparse per magia, ma soltanto rese “normali”, per quanto normale possa essere definita la vita. E la gente, che cosa capisce? Qualcuno legge il giornalino, apprezza i manufatti, assiste curioso allo spettacolo – in un mondo in cui le immagini ci inseguono, ci aggrediscono, convulse loro, assediati noi da fiction, realtà virtuale, queste almeno sono persone in carne e ossa. Qualcuno gradisce i risultati artistici, qualcun altro si compiace dell’ideale filantropico. Ma alla fine, molti si chiedono: li pagheranno? Oppure è un’altra occasione di sfruttamento? In fondo, il pubblico è intervenuto allo spettacolo per vedere loro, se non ci fossero stati loro lo spettacolo sarebbe stato un fiasco totale. A questi punti interrogativi noi riteniamo, senza falsa modestia, di avere risposte credibili. Alcuni di questi entrano come dubbi nelle nostre riflessioni, nei nostri tentativi di agire con mezzi insufficienti, altri fanno parte di alcune critiche un po’ troppo severe che abbiamo ricevuto. Tra poco saremo in grado di definire alcune evidenze. Per quanto abbiamo potuto considerare finora, promuovere la creatività può essere una efficace via di trasformazione, un antidoto alla granitica fissità dei pregiudizi – compresi quelli espressi da molti degli interrogativi precedenti. Possiamo interrogarci sui fattori di cambiamento: l’elemento creativo, capace di differenziare l’obiettivo dal mero produrre qualcosa, come negli inserimenti lavorativi, all’inventare qualcosa; l’utilizzazione dello spazio esperenziale del gioco; la mobilizzazione di energie, sentimenti, percezioni prima bloccate; il confronto con la realtà esterna mediato dalla pubblicità dei prodotti. Il nostro lavoro come campo di esercitazione psicologica ha la prerogativa di assicurare la più ampia libertà di azione e di intervento proprio perché il coinvolgimento ci può essere - anche intenso - ma può cessare nel momento in cui il partecipante ritiene opportuno sospenderlo. E soprattutto, si tratta di un lavoro che contribuisce a ri-creare le reciproche relazioni , dentro l'equipe “rinnovata” dalla presenza dei creativi, degli animatori, nell’intervento sul contesto sociale e culturale. Fuori dalla scena, al di là di questa finestra aperta, noi vediamo persone diverse, rivitalizzate, persone che stanno riprendendo i loro percorsi interrotti, che cominciano a riacquisire maggiore sicurezza in se stessi. Abbiamo scoperto una parte della loro soggettività che finora avevamo solo intuito. Qualcosa, insomma, sta ancora cambiando.  INDICE