Franco Basaglia - associazione difesa ammalati psichici Savigliano Fossano Saluzzo ODV

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Franco Basaglia

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Franco Basaglia nasce a Venezia l'11 marzo 1924, da una famiglia agiata. Secondogenito di tre figli, trascorre un'infanzia e un'adolescenza serene nel pittoresco quartiere veneziano di San Polo. Conclusi gli studi classici, nel 1943 si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell'Università di Padova. Qui entra in contatto con un gruppo di studenti antifascisti e, a seguito del tradimento di un compagno, viene arrestato e detenuto per sei mesi in carcere fino alla fine della guerra. Esperienza che lo segna profondamente e che Basaglia rievoca anni dopo parlando del suo ingresso in un'altra istituzione chiusa:
il manicomio.




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Intervista a Carlo Gerbaldo, sociologo di origine saviglianese e collaboratore di Franco Basaglia a Trieste.
A cura del dott. Igor Blua educatore professionale

D.  Come sei arrivato a Trieste?
R.  Avevo partecipato al movimento studentesco del ’68, e stavo cercando delle esperienze che mi permettessero di esprimere quella voglia di cambiamento sociale. Così quando mi sono laureato in sociologia nel 1973 ho iniziato a guardarmi intorno,. Nella primavera avevo letto “L’istituzione negata”, mi era molto piaciuto, mi pareva che Basaglia stesse facendo qualcosa di molto serio e con i soldi, avuti dai miei genitori per le vacanze estive, sono partito per Trieste.
Era fine luglio, avevo telefonato ad Augusto De Bernardi, anche lui sociologo, anche lui cuneese, avevamo deciso di incontrarci. Quando sono arrivato, mi ha subito portato al dormitorio pubblico per vedere il lavoro. Lui si occupava di migliorare le cose nel dormitorio pubblico di Trieste. Augusto aveva questo spazio d’intervento perché molti pazienti psichiatrici dimessi dall’ospedale, finivano in dormitorio e dovevano essere assistiti. Sono entrato nel dormitorio e ho subito sentito una gran puzza, l’impatto era stato negativo, cosa centrava quella puzza con la mia laurea in sociologia, ero indeciso, ma Augusto mi aveva offerto la sua ospitalità ed allora ci ho ripensato, mi sono fermato ed ho iniziato a lavorare con lui. Eravamo noi due soli e dovevamo risolvere il problema del dormitorio, per i basagliani individuare il problema non equivaleva a sapere come risolverlo. Dovevi provare e vedere se le cose si saldavano insieme. Intanto era arrivato Natale, avevo finito i soldi e anche De Bernardi non poteva più ospitarmi, allora mi sono trasferito a vivere nell’ospedale psichiatrico, in una cella singola, dove prima tenevano gli agitati. Nella cella c’era un letto, il cambio delle lenzuola avveniva una volta alla settimana e per mangiare potevi andare alla mensa interna.

D.  Come si veniva assunti?
R.  A Natale non ero ancora stato assunto e non sapevo se e quando sarebbe accaduto, temevo di aver fallito e di dover tornare a Savigliano. Invece improvvisamente, è arrivata la Borsa di studio di 250.000 lire al mese, erano arrivati anche gli arretrati e grazie a De Bernardi ho acquistato la mia prima macchina. Poi ho avuto altri periodi senza soldi e fortunatamente ne ricevevo da casa, i soldi della Provincia non erano regolari, mi ricordo che non ho ricevuto la Borsa per alcuni mesi. Nel 1976 sono stato assunto come avventizio, il contratto veniva rinnovato ogni tre mesi, io sono stato avventizio per tre anni, poi la Provincia mi ha definitivamente assunto.

D.   In quale ruolo sei stato inquadrato?
R.  Basaglia non aveva previsto ruoli rigidi, lui stava aprendo ad un nuovo mondo, voleva cambiare anche le professioni. Non il ruolo dei medici perché erano troppo codificati. aveva già cambiato il ruolo degli infermieri e dei paramedici, ma io ero un sociologo e questo ruolo non era previsto nell’amministrazione italiana. C’erano gli assistenti sociali, ma io ero laureato e così mi hanno inquadrato come dirigente, dovevo assumermi quel tipo di responsabilità. Basaglia ci invitava ad andare oltre il nostro ruolo, si doveva abolire il mansionario perché rappresentava l’istituzione che prevarica, il mansionario conservava il passato e impediva il futuro. Non si trattava di anarchismo come alcuni hanno detto in seguito. Basaglia era molto preciso, tutto doveva avverarsi secondo la forma classica di pensiero ed azione. Quindi coerenza tra pensieri e fatti, non il mansionario ma azioni inserite in una forma di pensiero classico. Si può dire che il pensiero filosofico partecipava alla definizione delle azioni.

D.  Si può dire, che tentavate di proporre il diritto alla salute dei pazienti?
R.  Sì, il diritto per noi era molto importante, perché il manicomio negava l’umanità del paziente, negando tutti i principi democratici, la firma del medico era sufficiente per sequestrare il paziente. Le leggi di riferimento criminalizzavano il malato, che veniva cacciato in una zona oscura del mondo, senza diritti, senza identità sociale. Noi volevamo ristabilire i diritti del malato, ma anche di più, perché i diritti non fanno l’umanità di nessuno, il problema di fondo era che il rapporto tornasse da uomo a uomo, Basaglia diceva umano. Anche nell’uomo più degradato, noi vedevamo e favorivamo l’espressione della sua umanità, come dicono i cristiani che in ogni uomo vedono il Cristo. Volevamo ristabilire i diritti per ristabilire la relazione tra persone.
Ad esempio, gli infermieri spesso, nei primi anni, erano mancanti nel loro ruolo, a volte venivano trovati ubriachi in turno e non venivano puniti, allora si puntava all’autoresponsabilità, alla loro capacità di autocorrezione. Secondo me questo è un elemento moderno, ed è ancora oggi l’elemento nuovo verso cui stiamo andando, la capacità di autoregolarci. Allora, le relazioni erano improntate alla responsabilità che ognuno aveva rispetto al proprio ruolo, a come lo viveva, questo poi è stato interpretato come lassismo, invece noi ricercavamo in modo rigoroso la verità, quella possibile e che era favorita dall’orizzontalità delle relazioni. Quella volta i rapporti erano dignitosi e di ricerca, c’erano autoregolazione e ricerca della dignità dell’uomo. Quando vennero a dire a Basaglia, che vi era un gran numero di infermieri degradati e ubriaconi, i quali protestavano per i nuovi compiti di assistenza che gli venivano affidati, e che erano legati alla diminuzione dei mezzi di contenzione. Basaglia decise di non punire nessuno. Disse a quegli infermieri che avevano l’abitudine di opprimere i pazienti ed erano degradati verso se stessi, di non venire più a lavorare. Propose e tolse la timbratura, potevano essere pagati e stare a casa. Eliminò l’orologio e non licenziò nessuno, si assunse lui la responsabilità di questo fatto. Basaglia sapeva di avere molti nemici e sapeva di rischiare, in questo fatto vi erano anche delle responsabilità penali, se non fai i controlli può arrivarti l’ispezione. Basaglia accettava di rischiare perché la sua ricerca di umanità includeva percorsi complessi, strutture di pensiero complesse.

D.  Dunque quella volta chi aveva delle responsabilità agiva di conseguenza?
R.  Esatto, questo è stato il primo passaggio, Basaglia se le assumeva con una competenza che andava oltre l’ordinario, questo perché lui era uno psichiatra straordinario, che era finito fuori dall’Università a causa della sua troppa scienza. Basaglia era anche una persona molto coraggiosa, conosceva il carcere perché l’aveva fatto durante la Resistenza, lui era un figlio della borghesia che aveva conosciuto il carcere, conosceva la reclusione e sapeva che in ogni situazione, puoi fare qualcosa per migliorare il tuo e l’altrui destino. L’esperienza della Resistenza, come conoscenza diretta, gli aveva regalato quella energia che usava per fare qualcosa di buono anche nelle situazioni più difficili, quella energia poi confluirà nel suo “pensiero pratico”. Lui accettava la realtà e poi provava con una fantasia morale, che diveniva pratica corrente, a renderla più umana, la realtà doveva essere acquisita e poi modificata, umanizzata.

D.  A Trieste, pensavate di essere in un lager, come aveva detto Mariotti nel ’68?
R.  Il tema del lager era molto presente, anche io durante gli studi di sociologia ero andato a visitare Dachau e poi Auschwitz, il problema dei lager l’avevo molto sentito, anche se pensavo che non esistessero più.

D.  Con quale tecnica si supera il lager?
R.  La miglior tecnica è una non tecnica, l’uomo è sempre in creazione, qualsiasi lavoro faccia, quando attualizza il suo lavoro in forme tecniche sta realizzando una fase applicativa, poi come faceva Basaglia devi inventarti forme nuove. La tecnica non definisce la realtà, ma serve per creare una relazione che si modifica, modificando anche la tecnica. Basaglia le tecniche le conosceva tutte, conosceva anche la cultura della sua epoca, lui non privilegiava l’aspetto esecutivo su quello della ricerca. Basaglia mi ha insegnato che in qualsiasi contesto, in qualsiasi tecnica, tu puoi entrarci dentro, capire cosa è, e poi ti tocca di trasformarla. Basaglia era un uomo che reggeva le trasformazioni che proponeva, dava generosamente tutte le sue forze, a volte penso che sia stata la stanchezza ad ucciderlo, nell’ultimo periodo di Trieste era stanchissimo, lavorava tantissimo.

D.  Tutto il suo staff lavorava tantissimo?
R.  Mi pare di sì, solo all’inizio ci furono delle incomprensioni, poi  tutti accolsero il suo pensiero, ricordo che tutto il personale medico e paramedico si impegnava molto. Si potrebbe dire che erano tutti liberamente molto impegnati, molto responsabili. Perché libertà nella gestione del ruolo, non significava finire in posizioni di irresponsabilità, non vi erano deleghe possibili per quanto riguardava la propria responsabilità professionale e umana. Negare il ruolo significava dare di più, risolvere dei problemi in più, che da dentro al ruolo potevi decidere di non affrontare.


D.  Quale era esattamente il tuo compito?
R.  Dovevo intervenire nel dormitorio pubblico, quella volta vi erano 300 alloggiati, tutte persone molto degradate con tassi altissimi di alcolismo. Molti dimessi dall’ospedale psichiatrico, non riuscivano a trovare una collocazione abitativa e finivano in dormitorio. Si alcolizzavano, venivano espulsi dal dormitorio e ritornavano in ospedale, o se avevano commesso qualche reato in carcere, e successivamente in ospedale psichiatrico. Il circuito, così lo chiamavamo, delle istituzioni totali, era molto ben definito, si girava tra carcere, dormitorio per vecchi, dormitorio pubblico, ospedale psichiatrico.

D.  Il dormitorio quanto personale aveva?
R.  Prima che arrivassimo noi, vi erano i guardiani che garantivano l’ordine pubblico, un direttore e del personale per la mensa, vi erano anche degli addetti alle pulizie. A volte avevi assegnato tutti i letti e arrivavano ancora persone che non sapevi dove sistemare, a quel punto le inviavi all’Ente per l’Assistenza Comunale (poi ECA) . Loro gestivano anche piccoli sussidi, vestiario, ma in forma caritatevole, si trattava di provvidenze e non di pensioni sociali. Basaglia e Zanetti si batteranno per ottenere dei provvedimenti economici stabili, il presidente della provincia era un democristiano di sinistra, anche lui un buon intellettuale, offriva il massimo della copertura politica per favorire il processo di riforma dell’ospedale psichiatrico.

D.  Cosa voleva dire superare il dormitorio pubblico?
R.  Ci sono stati alcuni passaggi, anche in dormitorio abbiamo iniziato facendo delle assemblee con gli alloggiati, poi si è costituito un comitato degli alloggiati, loro portavano avanti alcune richieste. Il comitato era presieduto da un vecchio giornalista dell’Unità, finito anche lui nel dormitorio, trovavi persone che non ti saresti aspettato di trovare in quel posto. Vi erano persone che avevano partecipato alla rivoluzione russa, persone scolarizzate, impiegati, molti portuali addetti al carico e scarico delle merci, poche donne perché allora resistevano di più degli uomini alle difficoltà quotidiane. il reparto donne del dormitorio era proporzionato al loro numero, poche decine mentre gli uomini erano centinaia.

D.  Dunque il comitato esplicitava i problemi e voi proponevate delle soluzioni?
R.  Loro non riuscivano a rappresentarsi la realtà, una persona degradata è troppo fragile, nemmeno il comitato riusciva a dare forza a quelle persone. Però lentamente hanno ricominciato a ricordare la loro identità di prima, partì il recupero di quello che erano stati in precedenza. E’ idealistico pensare che delle persone distrutte possano riscattarsi senza un aiuto. Era irrealistico, pensare di fare i dirigenti del dormitorio, senza capire che l’esperienza avrebbe cambiato anche noi, aiutando quelle persone ad uscire dall’angolo buio in cui si erano messe, noi e loro uniti nel processo di cambiamento, ci saremmo entrambi riscattati. Se andava male si degradavano loro e ci degradavamo noi. Volevamo riscattarci dall’essere a capo di qualcosa di inumano, quella era l’idea di Basaglia, liberi l’altro e così liberi anche te stesso.
Noi andavamo ogni tanto all’ECA per farci dare indumenti e soldi, quei funzionari non erano mica tanto contenti di vederci, secondo loro ci agitavamo troppo. Comunque ci davano soprattutto pacchi di mutande e altro vestiario, pochi soldi e non volevano trattare con il comitato degli alloggiati, anche i guardiani non gradivano quelle novità. Invece il comitato, gestendo piccole cifre, iniziò a cercare degli appartamenti e quella ricerca diventò un messaggio di libertà per tutti gli alloggiati. I primi anni era molto difficile, ci affittavano solo delle soffitte, noi non eravamo in grado di dare delle garanzie ai proprietari. Ristrutturavamo un pochino le soffitte, utilizzando le nostre risorse, poi sono arrivati i sussidi, quello strumento fu un’invenzione importante, tutti ne sentivamo il bisogno, perché quei pochi soldi incoraggiavano le persone a riprendersi la loro vita. Era tutto sperimentale, avevamo una buona partecipazione assembleare, ma poi era difficile individuare il soggetto che sarebbe andato ad abitare nell’alloggio. Era importante non fare brutte figure, il rito preparatorio spaventava la persona scelta e a volte si giungeva ad una rinuncia, non riusciva a scegliere di migliorare la propria esistenza. Dopo le prime regressioni ci siamo organizzati, di solito interrompevano il progetto ubriacandosi e facendosi ricoverare in ospedale, quello di medicina generale, che poi li portava a quello psichiatrico. In quel caso li perdevamo di vista e solo successivamente venivamo a sapere dove erano finiti. Si rimediò creando dei rapporti stabili anche con l’ospedale civile. Non era facile, la nostra equipe era composta solo di quattro persone, tutti sociologi, io, De Bernardi, Marucelli e Giuditta Livullo che proveniva dal PCI di Trieste.

D.  Eravate solo quattro per trecento alloggiati?
R.  Sì, era tutto sperimentale, anche i fondi per i progetti erano pochi e non sicuri, li cercavamo in tutte le direzioni, certo la nostra cultura ci aiutava, sapevamo di essere lì per inventare qualcosa di nuovo, deistituzionalizzare il dormitorio.

D.  Era quello, il basagliano rendere possibile ciò che prima appariva impossibile?
R.  Certo, Basaglia era per rompere gli schemi, per cercare di umanizzare la relazione con la persona bisognosa d’aiuto. Lui diceva che si doveva ottenere il ruolo per poi negarlo, puoi negare solo ciò che possiedi, allora lui era il massimo della preparazione medica e poi la negava. Medici che negassero il loro ruolo non se ne vedevano, io ho visto solo lui ed è stata una cosa enorme, i medici sono una casta potentissima. Invece Basaglia utilizzava le sue capacità relazionali per incontrare il paziente e tutta la sua scienza e creatività, per trovare percorsi riabilitativi sempre nuovi.

D.  Basaglia che tipo di psichiatra era?
R.  Era uno che metteva nella relazione con il paziente, il massimo dell’umanità possibile, poi venivano le tecniche che lui padroneggiava benissimo, ma prima veniva la relazione umana, il suo ideale era quello. Basaglia era anche un grande dirigente, un grande filosofo, un grande umanista, sapeva trattare con le persone e sapeva circondarsi di validi collaboratori, quelli che riteneva adatti per il processo di trasformazione istituzionale, che lui aveva da tempo immaginato. Era rigorosissimo, controllava tutto, se sbagliavi ti sanzionava moralmente, nessuna punizione ma richiami alle tue responsabilità.

D.  Possiamo dire che era un buon “tecnico” perché era molto creativo?
R.  Sì, allora la nostra Università non ti aiutava ad esserlo, intendo creativi e penso che anche oggi sia così se non peggio, all’Università sono tutti tecnici ma poco creativi. Si ripete molto la tecnica, cioè quello che già si conosce.

D.  Basaglia aveva immaginato la forma del Dipartimento di    Salute Mentale, i direttori di oggi sembra non sappiano utilizzarla, lui direbbe che sono troppo tecnici?
R.  Certo Basaglia vivo avrebbe saputo come migliorarla, ripetere una tecnica significa perdere il contatto con la realtà, lui sapeva come collegare il pensiero con l’azione e quello gli permetteva di migliorare le tecniche, lui aveva grandi slanci, coraggio, capacità di relazione. Basaglia era anche un filosofo ed è utile se vuoi cambiare le istituzioni.

D.  Cosa è accaduto alla morte di Basaglia?
R.  Sono ripartiti i giochi politici, la commissione parlamentare si interrogò sul possibile aumento dei suicidi dopo l’approvazione della 180, i missini volevano affondare la legge. Con il CNR abbiamo concordato l’uscita di ricerche, che chiarissero come stavano realmente le cose, non vi era alcun aumento dei suicidi, la realtà era un’altra, in alcune parti d’Italia la legge era stata applicata senza alcuna umanità. Le pubblicazioni erano firmate da me e De Bernardi, noi avevamo molte difficoltà anche economiche, non ci venivano pagate le trasferte, ma dovevamo andare a Roma per bloccare l’ondata scandalistica che tentava di infangare la Riforma. Basaglia aveva dimostrato che molte cose erano possibili, quindi noi basagliani dovevamo stringere i denti. Nonostante le difficoltà facemmo uscire tutte le pubblicazioni.

D.  Perché il CNR era interessato a queste pubblicazioni?
R.  Io e De Bernardi, eravamo due sociologi, preparati per fare ricerca e presenti a Trieste da alcuni anni. Il CNR aveva fatto un progetto sulla “Medicina preventiva”, vi era anche la sezione dedicata alla psichiatria. Per la malattie mentali hanno chiesto a noi se volevamo farne parte, erano una ventina le situazioni, in Italia, dove si praticava una psichiatria simile o vicina a quanto aveva proposto Basaglia, furono alcuni volumi e servirono per difendere la Riforma dopo la morte di Basaglia. Io ne sono uscito nel 1985, ma il progetto è andato avanti, il Consiglio Nazionale delle Ricerche affrontò con competenza la situazione che si era venuta a creare dopo la legge 180.

D.  Torniamo indietro di qualche anno, cosa è successo al Reseau tenutosi a Trieste?
R.  Allora il nome, l’uso del francese arriva dagli incontri con Sartre, si voleva riunire la “rete” della psichiatria alternativa, era il ’77, si contestava la casta dei medici, il loro enorme potere, nell’ospedale e non solo, ovviamente la presenza di Basaglia garantiva la possibilità di dialogo. I gruppi di autonomi portarono avanti una contestazione, a tratti anche violenta, alcuni medici in quella occasione non accettarono la perdita del loro ruolo gerarchico. Va ricordato, che alcuni assistenti di Basaglia non erano disponibili a mettere in discussione il loro ruolo, non accettavano di trasformarlo, così sono iniziati gli spintoni e l’incontro si è concluso con pochi risultati concreti. Vi fu anche la situazione del furto delle 20.000 lenzuola, la denuncia lo costrinse a pagare le lenzuola e i suoi collaboratori protestarono, probabilmente il furto era avvenuto all’inizio del percorso di trasformazione dell’ospedale, probabilmente fatto dagl’infermieri che si opponevano al cambiamento, quelli per cui Basaglia aveva eliminato la bollatura. La tesi di Basaglia fu che per attuare grandi cambiamenti, ogni tanto tocca pagare. Basaglia non controllava le piccole cose dell’ospedale psichiatrico, le sue responsabilità erano altre, lui da dirigente controllava che avvenissero i grandi cambiamenti e di quelli discuteva con il suo staff, le discussioni riguardavano le resistenze che si incontravano e come superarle.


Biografia La vita e le opere (tratto da: Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, "Franco Basaglia", Edizioni Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 1-7).

Franco Basaglia nasce a Venezia l'11 marzo 1924, da una famiglia agiata. Secondogenito di tre figli, trascorre un'infanzia e un'adolescenza serene nel pittoresco quartiere veneziano di San Polo. Conclusi gli studi classici, nel 1943 si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell'Università di Padova. Qui entra in contatto con un gruppo di studenti antifascisti e, a seguito del tradimento di un compagno, viene arrestato e detenuto per sei mesi in carcere fino alla fine della guerra. Esperienza che lo segna profondamente e che Basaglia rievoca anni dopo parlando del suo ingresso in un'altra istituzione chiusa: il manicomio.

Nel 1949 si laurea in medicina e chirurgia e inizia a frequentare la clinica delle malattie nervose e mentali di Padova, dove lavora come assistente fino al 1961. Per tutto questo periodo – e anche oltre – Basaglia produce un grande lavoro intellettuale con un susseguirsi di scritti, di pubblicazioni scientifiche, di relazioni congressuali sulle più diverse condizioni di malattia quali poteva incontrare nella sua pratica clinica: la schizofrenia, gli stati ossessivi, l'ipocondria, la depersonalizzazione somatopsichica, la depressione, la sindrome paranoide, l'anoressia, i disturbi correlati all'abuso alcolico e altro ancora. Sono anni in cui incomincia anche ad appassionarsi di filosofia, studiando in particolare la fenomenologia e l'esistenzialismo e cercando di conciliare la psicopatologia tradizionale con la psichiatria antropofenomenologica. Direttore della clinica è il professor Giovanni Battista Belloni, accademico di vecchio stampo e di prevalente formazione neurologica e organicista, con il quale Basaglia intrattiene un rapporto formale di rispetto. Qualche anno dopo è lo stesso Belloni che dissuade "il filosofo" Basaglia – come lo chiama ironicamente – a lasciar perdere la carriera universitaria, a cui pure egli teneva, perché non si sarebbero aperte concrete possibilità di successo. Nasce una grande amicizia tra Basaglia e il collega Hrayr Terzian – in seguito protagonista di una brillante carriera come professore di neurologia – con il quale condivide numerosi interessi scientifici e culturali e molte letture, soprattutto in francese. Nel 1952 Basaglia consegue la specializzazione in malattie nervose e mentali e l'anno dopo si sposa con Franca Ongaro, con la quale avrà due figli. Con lei stabilisce anche uno straordinario sodalizio intellettuale e scrive molti dei suoi libri.

Nel 1958 Basaglia consegue la libera docenza in psichiatria e nel 1961 partecipa e vince il concorso per la direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, dove si trasferisce con tutta la famiglia. Drammatico è l'impatto con la durezza della realtà manicomiale: Basaglia comprende subito che bisogna reagire a questo orrore, impegnandosi in un radicale lavoro di trasformazione istituzionale. Aiutato da un gruppo di giovani psichiatri, cerca di seguire il modello della "comunità terapeutica", mutuato dall'esperienza di Maxwell Jones a Dingleton in Scozia (anche Franca Ongaro visita in seguito questa comunità). A Gorizia s'iniziano ad applicare nuove regole di organizzazione e di comunicazione all'interno dell'ospedale, si rifiutano categoricamente le contenzioni fisiche e le terapie di shock, s'incomincia, soprattutto, a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. Si organizzano le assemblee di reparto e le assemblee plenarie, la vita comunitaria dell'ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici. Si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione coatta fra uomini e donne degenti. Si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell'ospedale.

In questi anni, Basaglia prosegue la sua attività scientifica e intellettuale e continua a partecipare attivamente ai congressi nazionali e internazionali di neurologia e di psichiatria, tra cui il Congresso Internazionale di Psicoterapia di lingua tedesca a Wiesbaden nel 1962 e il VII Congresso di Psicoterapia a Londra nel 1964. Nello stesso anno, sempre a Londra, fa parte della delegazione italiana al I Congresso Internazionale di Psichiatria Sociale a Londra, dove presenta la comunicazione intitolata "La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione", nella quale è prefigurato il lavoro che sarà realizzato prima nell'ospedale psichiatrico di Gorizia e poi in quello di Trieste. Dal 1965 fa parte come corrisponding editor del "Journal of Existentialism" di New York. Nel 1967 cura il volume Che cos'è la psichiatria?, ristampato nel 1973. Nel 1968 cura il volume L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, che fa conoscere a livello internazionale l'esperienza innovativa di Gorizia e sancisce la nascita del movimento antiistituzionale, diventando presto uno dei libri-simbolo della contestazione in Italia e vendendo 60.000 copie nei primi quattro anni di pubblicazione. Nel 1969, con Franca Ongaro, cura Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin; presenta inoltre Asylums di Erving Goffman e Ideologia e pratica della psichiatria sociale di Maxwell Jones. Nello stesso anno si reca negli Stati Uniti, invitato in qualità di visiting professor, per la durata di sei mesi, dal Community Mental Health Center del Maimonides Hospital di Brooklyn, a New York: di questa esperienza dà testimonianza nello scritto "Lettera da New York. Il malato artificiale".

Al suo ritorno, dopo un periodo d'indecisione, lascia Gorizia – dove il tentativo di superare il manicomio purtroppo fallirà per le resistenze opposte dall'amministrazione locale nel dare luogo a un'assistenza psichiatrica sul territorio – e accetta l'invito di Mario Tommasini, coraggioso assessore alla sanità della Provincia di Parma, di dirigere l'ospedale psichiatrico di Colorno. Qui avvia la prima fase di un processo di trasformazione che si rivela ben presto, anche qui, un'esperienza molto difficile, perché Basaglia deve affrontare numerose difficoltà di ordine amministrativo, opposte dalla giunta di sinistra della Provincia di Parma, che pure si è impegnata a sostenere il processo di trasformazione, ma che di fatto non lo appoggia per non stravolgere gli equilibri politici e gli interessi economici locali. Nel 1971 esce La maggioranza deviante. L'ideologia del controllo sociale totale, curato con Franca Ongaro. Dal 1971 al 1972 è incaricato dell'insegnamento di igiene mentale presso la facoltà di magistero dell'Università di Parma.

La svolta è nell'estate del 1971, quando Basaglia vince il concorso per la direzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste: accetta subito perché gli viene garantita la possibilità di fare tutte le scelte che ritiene più opportune. Al suo arrivo sono ricoverate 1182 persone, 840 delle quali in regime coatto. L'ospedale è sotto l'amministrazione della Provincia, retta da una giunta di centro-sinistra che è presieduta da Michele Zanetti; quest'ultmo dà pieno appoggio al progetto di superamento del manicomio e di organizzazione psichiatrica territoriale proposto da Basaglia e dai suoi. Appena arrivato, Basaglia chiede di poter costruire la sua équipe e presenta un programma di ristrutturazione dell'assistenza psichiatrica provinciale con un drastico ridimensionamento dell'ospedale attraverso l'apertura e la riorganizzazione dei reparti. Si tratta di spezzare l'isolamento del manicomio rispetto alla città per lavorare con un'immediata proiezione sul territorio circostante. Basaglia, forte dell'esperienza di Gorizia e di Parma, si è accorto che l'esperimento della Comunità Terapeutica non basta: bisogna dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la persistenza stessa dell'istituzione totale. A Trieste il manicomio deve essere chiuso. È necessario anche costruire una rete di servizi esterni, che arrestino il flusso dei nuovi ricoveri e provvedano alle necessità di assistenza per le persone dimesse dal manicomio. Nel 1973, contro lo sfruttamento "ergoterapico" degli internati, ottiene l'agognato riconoscimento giuridico la Cooperativa Lavoratori Uniti, prima esperienza di organizzazione lavorativa – che coinvolge i degenti dell'ospedale psichiatrico e, successivamente, gli utenti dei servizi di salute mentale – a cui ne seguiranno diverse altre.

Sempre nel 1973, Trieste viene designata "zona pilota" per l'Italia nella ricerca dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sui servizi di salute mentale in Europa. Nello stesso anno, Basaglia fonda con altri collaboratori "Psichiatria Democratica", movimento nel quale si confrontano molte esperienze di psichiatria alternativa che stanno sorgendo in Italia. Il primo convegno, "La pratica della follia", si tiene a Gorizia nel 1974 e segna il collegamento fra il movimento antiistituzionale e le forze politiche e sindacali di sinistra. Nel 1975 Basaglia cura con Franca Ongaro il volume Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come custodi di istituzioni violente, e presenta Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere di Robert Castel.

Nel corso dell'anno si aprono i primi centri di salute mentale sul territorio. Si svolgono le elezioni amministrative, dalle quali il centrosinistra esce indebolito. Infatti, nel 1976 il clima politico peggiora e l'esperienza di superamento del manicomio subisce attacchi sempre più violenti. È l'aggravamento di una crisi politica e amministrativa che porta alla fine della giunta Zanetti, che, messa in minoranza, deve dimettersi. Zanetti insieme con Basaglia annuncia in conferenza stampa la chiusura entro la fine del 1977 dell'ospedale psichiatrico. Lo stesso anno, nel comprensorio dell'ospedale psichiatrico, si svolge il terzo incontro del Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria, intitolato "Il circuito del controllo", a cui partecipano circa quattromila persone.

Il 13 maggio 1978 viene approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica, che si ispira alle esperienze di superamento dell'ospedale psichiatrico sviluppatesi in Italia a partire dall'inizio degli anni sessanta. Approvata quasi all'unanimità, la legge 180 avrà tuttavia un iter difficile nella fase di realizzazione. Viene pubblicata La nave che affonda. A dieci anni da "L'istituzione negata", lungo dibattito fra Basaglia, Ongaro, Pirella e il curatore S. Taverna. Nello stesso anno, Basaglia avvia con Giulio Maccacaro, direttore dell'istituto di biometria dell'Università di Milano, la prima ricerca finalizzata sui servizi psichiatrici, nell'ambito del Progetto Finalizzato Medicina Preventiva del CNR diretto da Raffaello Misiti. Partecipa e promuove inoltre convegni internazionali in tutta Europa, compresi quelli dell'OMS sullo sviluppo della ricerca. È invitato in Messico e Mozambico. Nel 1979, affronta due importantissimi viaggi in Brasile, da San Paolo a Belo Horizonte, passando per Rio de Janeiro. Davanti a un pubblico composto non solo da psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri, ma anche politici, sindacalisti, professori, studenti, gente comune, tiene una serie di conferenze che vengono raccolte nel volume Conferenze brasiliane. Sempre nel 1979, presenta e partecipa al libro-inchiesta, curato da Ernesto Venturini, Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana.

Nel novembre dello stesso anno, lascia la direzione di Trieste a Franco Rotelli e si trasferisce a Roma, dove assume l'incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. Già iniziano i primi attacchi alla legge 180. Basaglia mette subito in campo tre programmi di deistituzionalizzazione di alto profilo, per i quali chiede carta bianca all'amministrazione regionale. Purtroppo, nella primavera del 1980 si manifestano i primi segni di un tumore cerebrale che lo conducono alla morte in pochi mesi. Si spegne il 29 agosto nella sua casa di Venezia. Nel 1981-82 escono, a cura di Franca Ongaro, i due volumi dei suoi Scritti.


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